Gualtiero Marchesi: il grande lusso della semplicità

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Il maestro dell’arte culinaria, in questa intervista a cuore aperto ci racconta la sua passione per la cucina alla continua ricerca di sapori autentici, essenziali e che sappiano trasmettere emozioni e sentimenti.

Vi riproponiamo l'intervista al grande Maestro Gualtiero Marchesi.

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"Che emozione intervistare il ristoratore più famoso del mondo!" "Ah, meno male che ha detto del mondo e non solo italiano...". E se la ride sotto i baffi, il nostro gastronomico vanto nazionale, Gualtiero Marchesi, con quell'aria leggera, sorniona e benevola che si può permettere solo chi, ormai, non deve dimostrare più nulla a nessuno. Tanto da rifiutare i punteggi attribuiti dalle guide ai ristoranti, riconoscimenti tanto ambiti da tutti i cuochi del mondo. Ci riceve sorridente e rilassato al Marchesino, uno dei suoi più recenti "feudi", in Piazza della Scala a Milano, e parte una scoppiettante conversazione sul cibo, sul mondo, sulla vita, in cui il maestro ci mostra la cultura, la semplicità e la schiettezza che caratterizzano anche la sua proposta gastronomica.

Maestro, nella sua infanzia era già un “cuoco nato”?

Bazzicare in cucina è stato per me molto naturale sin da piccolo, perché i miei genitori erano albergatori, sebbene il ristorante non fosse gestito direttamente da loro. Mi hanno insegnato molto, soprattutto con l’esempio: mio padre era un gran lavoratore, mia madre una brava amministratrice, una donna molto elegante e sobria, chiamata da tutti “La signora”. Il suo stile di vita è metaforicamente ben sintetizzato in un basilare insegnamento gastronomico: “Ricorda che le salse servono per condire la pasta, non il piatto”.

Come è arrivato a scegliere la sua professione?

Da piccolo rimanevo incantato a osservare i grandi maestri che si alternavano nella cucina del nostro albergo. A diciassette anni mi stancai di studiare e mia madre mi mandò a lavorare a St Moritz, frequentata all’epoca da reali e blasonati di tutto il mondo. Colpito dalla cultura di quei grandi personaggi, decisi di riprendere gli studi. Suonavo il pianoforte ed ero anche abbastanza bravo, facevo già delle sonate a quattro mani con quella che sarebbe diventata mia moglie e che è tutt’ora un’ottima pianista. Poi, visto che qualsiasi cosa facessi i miei pensieri erano sempre là, in cucina, ho deciso che era inutile opporsi al destino: ho lasciato per sempre la carriera di musicista, senza toccare mai più il pianoforte, per dedicarmi alla vera passione della mia vita. Così sono stato travolto da un vortice di esperienze molto formative e ho avuto il privilegio di poter osservare e affiancare grandi chef, sia in giro per il mondo, sia nel ristorante dei miei genitori.

Quando ha iniziato a “mettere le mani in pasta”?

Il mio primo piatto è stato il petto di pollo alla Kiev, un piatto russo che ho trasformato, non nei sapori ma nella forma. Si tratta di un petto di pollo farcito con una salsa di erbe al burro e fritto, che aveva però il difetto di lasciar schizzare la salsa quando veniva tagliato. Io preparai invece degli spiedini di pollo da intingere nella salsa al burro, superando così il pericolo d’incidenti! Nel farmi passare direttamente ai fornelli è stato determinante un viaggio in Giappone, la cui cucina mi ha incuriosito tantissimo proprio per la grande attenzione che dedica alla materia prima. Rientrato in patria, ho inventato il sushi all’italiana, di pesce, di carne e di verdura. Amo poi prendere le ricette del territorio e renderle più buone e adatte a tutti, mantenendo però la loro tipicità, senza tradirle e riempirle di orpelli, ridondanti e inutili.

Qual è il cuore, il nodo centrale della sua cucina?

Arrivare a esprimere, attraverso un piatto, sentimenti, sensazioni, emozioni, e fare in modo che gustandolo, guardandolo, annusandolo, toccandolo si percepiscano quei sentimenti. In pratica, fare della cucina un’arte. A questo proposito, amo anche trasformare in sapori e profumi le opere di artisti. Ora, ad esempio, mi sono ispirato al mio amico pittore Hsiao Chin, che espone alla triennale Bovisa di Milano. Un suo quadro è diventato un risotto al parmigiano, bianco, disposto su un piatto nero quadrato e al centro del quale ho messo una palla di chili rossa e piccante: sono stato felice di stupirlo facendoglielo assaggiare. Una cosa che non sopporto, invece, è l’esagerazione che maschera la natura vera delle cose. La mia cucina ama la verità della materia, ovviamente di prima qualità, che deve lasciar percepire i suoi sapori essenziali. Sempre “sottraendo” anziché “aggiungendo”. Coerentemente con questo, nella vita come a tavola, per me il lusso è concedersi la semplicità, molto difficile da raggiungere e da non confondere con la banalità. Devo anche ringraziare la mia formazione musicale: sia la cucina sia la musica hanno, infatti, bisogno di bravi interpreti e per fare una buona ricetta ci vuole una composizione che amalgami in modo coerente tutti gli ingredienti, in modo che, come insegna Eraclito, dal contrasto possa sgorgare una bellissima armonia.

Quali sono i gusti culinari della sua clientela?

In linea di massima la mia clientela più avanti negli anni e che mi conosce da tempo richiede una cucina tradizionale, mentre sono i giovani a cercare novità. Io mi colloco a metà tra queste due esigenze, proponendo una cucina delicata, con pochi orpelli e salse, come quella giapponese alla quale spesso mi ispiro. Mi capita però di sentirmi isolato e non sempre compreso in questa proposta di purezza e sobrietà. Ma proseguo in linea con il mio pensiero nella convinzione che siamo noi ristoratori a dover “guidare” la clientela e far capire che mangiare in modo armonico, assaporare i cibi nella loro essenza, masticare in modo da estrarre i succhi dai vari alimenti, è una grande fonte di piacere oltre ad avere anche conseguenze positive sulla salute.

Cosa consiglia ai giovani cuochi e ristoratori?

Innanzitutto di imparare la tecnica culinaria e farla propria in modo così profondo da poterla poi dimenticare, senza pretendere subito di essere dei “creativi”. E poi uscire dalla cucina per parlare con i clienti, andare personalmente ad acquistare i prodotti, interessarsi alle belle cose, visitare musei, respirare la natura, arricchendo così il proprio bagaglio culturale. E non anelare alle stelle delle varie guide.

Una domanda provocatoria: la maggior parte dei suoi clienti viene da lei per fare esperienze gustative uniche o per poter dire “sono stato da Marchesi”?

Sinceramente non so cosa dirle. Mi piacerebbe che i clienti venissero sempre perché apprezzano la mia cucina, ma il rischio che qualcuno venga per il “nome” non posso escluderlo. E, infatti, mi piace molto quando posso avere pochi clienti e stare a tavola con loro, instaurare un rapporto diretto, poter spiegare i miei piatti e rispondere alle loro domande. Spero comunque che il mondo attuale, in cui prevale l’apparire, lasci il passo a un mondo più attento all’essenzialità e alla verità, che oltretutto permettono alla vera bontà, anche in campo culinario, di emergere. “L’arte è il porsi in opera della verità”, scriveva Heidegger e io aggiungo che la verità della forma è l’unica strada per eliminare l’inganno dell’apparenza.

Gualtiero Marchesi: il grande lusso della semplicità - Ultima modifica: 2018-01-01T00:00:00+01:00 da Redazione

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