Per non perdere il grande patrimonio culturale e di sapori di cui è ricca la nostra penisola, sempre più gruppi o singoli agricoltori si organizzano per recuperare le antiche varietà di ortaggi e frutta ormai scomparse dalle nostre campagne, e rimetterli di nuovo in commercio
Qualche volta ritornano, dopo un viaggio e una lunga permanenza all'estero, scovati nel cassetto di un vecchio mobile, trovati nei campi di una cascina abbandonata e ora ristrutturata. Ma anche con il passaparola di chi non si accontenta dell'ovvio o seguendone le tracce su vecchi libri. Sono i semi di ortaggi o di alberi da frutto introvabili nei cataloghi ufficiali e considerati irrimediabilmente scomparsi. In Italia, per esempio, erano presenti 25 varietà di cocomeri nostrani, tutti ormai spariti tranne uno, il cocomero di Bagnacavallo o cocomero Romagnolo. "Da noi non c'era più - racconta Eugenio Mingozzi, agricoltore biologico di Santerno, in provincia di Ravenna - ma è stato ritrovato in Canada: una famiglia di emigranti si era portata il seme e lo aveva piantato lì". Un altro esempio di migrazione è un peperone dolce partito nel 1887 dalla Basilicata nel fagottino della moglie di un emigrante: scomparso in Italia e riapparso nel 1983 negli Stati Uniti quando l'ultimo discendente della famiglia che lo aveva esportato lo inviò a un'associazione che, appunto, ricercava antiche varietà di ortaggi.
LA PAROLA AI "SALVATORI DI SEMI"

VECCHI OLIVI PIÙ RESISTENTI DELLE MODERNE VARIETÀ
Alberto Olivucci ha la sua azienda sulle colline vicino a San Leo, in provincia di Rimini, e i vecchi olivi che ha trovato nei suoi campi si è guardato bene dall'abbatterli per sostituirli con varietà più moderne. "Sono piante - spiega - che hanno superato alcuni decenni di incurie, sono molto resistenti al freddo e hanno caratteristiche qualitative particolari, fra cui circa il 7% in più di sostanza grassa rispetto alle nuove varietà. Un dato apprezzabile anche dal punto di vista economico. Però non sono adatte alla raccolta meccanica e sono state abbandonate".
DALLA MULTINAZIONALE SEMENTIERA ALL'ORTO BIOLOGICO
Eugenio Mingozzi, fra gli agricoltori intervistati, è quello che, di varietà rare e antiche di ortaggi, ne coltiva la maggiore quantità: oltre al cocomero romagnolo, il cetriolo spuredda nera, il melone zatta o rospo di Bologna, il peperone corno abruzzese, il fagiolino giallo burro di Rotencourt. L'elenco potrebbe continuare, anche perchè cambia e si arricchisce ogni anno. "Ho lavorato per 18 anni in una multinazionale sementiera - racconta - e quando l'ho lasciata ho rilevato la Radisa, un'azienda orticola biologica. Ho mantenuto i contatti con i tanti contadini conosciuti nel corso della mia attività precedente ed è tramite loro che continuo a cercare e a trovare nuove varietà che poi provo a coltivare. Il mio obiettivo è produrre cibo buono, biologico e per quanto possibile con varietà locali che vendo in azienda o a gruppi d'acquisto".
LA CAPACITÀ DI RESISTERE ALLE AVVERSITÀ
Nel mondo si contavano 3600 varietà di fagioli; in Italia, in ogni zona, ce n'erano oltre dieci varietà con tempi e modalità di consumo diverse: ora ne usiamo 5 o 6. Me lo ricorda Alberto Olivucci che, oltre a occuparsi della sua azienda agricola, è presidente di Civiltà contadina, un'associazione che ha fra i suoi obiettivi anche la salvaguardia delle vecchie varietà di piante. Cosa abbiamo perso e continuiamo a perdere con questa riduzione delle varietà? "Questo processo - spiega Olivucci - è conseguenza di una selezione genetica fatta per rendere la pianta più produttiva e adatta a essere coltivata con i metodi dell'agricoltura industriale (concimi chimici, pesticidi, meccanizzazione spinta e altro ancora).
Il fatto è che, quando il genetista lavora a una selezione spinta verso la produttività, spesso non può fare mediazioni con le altre caratteristiche, prime fra tutte le qualità nutrizionali e organolettiche. Per quanto riguarda il gusto, l'equazione è semplice: meno varietà uguale meno sapori. Sulle proprietà nutrizionali il discorso è più complesso, ma la dice lunga, per esempio, il fatto che nei prodotti trasformati si aggiungano nutrienti che dovrebbero essere naturalmente presenti nella materia prima". "Infine, fra le conseguenze della perdita di biodiversità - conclude Olivucci - non possiamo dimenticare il fatto che saremo meno attrezzati ad affrontare nuove malattie o cambiamenti ambientali, come l'aumento della temperatura globale. Minore è la varietà di piante di cui disponiamo, minore sarà la probabilità di trovare quella capace di resistere alla nuova malattia o di produrre anche in presenza di meno piogge".