“L’agricoltura biologica è dettagliatamente codificata da norme europee e nazionali. Meno marketing e più risposte concrete alle esigenze dell’agroalimentare italiano”. FederBio replica all’ennesimo attacco al cibo davvero sano
“L’agricoltura biologica è dettagliatamente codificata da norme europee e nazionali. Meno marketing e più risposte concrete alle esigenze dell’agroalimentare italiano”. FederBio replica a Oscar Farinetti.
«Il biologico, un concetto confuso e farmaceutico che non piace a noi gourmet» dichiara Oscar Farinetti, ex proprietario di UNIEURO-elettronica di consumo -e ora socio di Coop in Eataly, catena di distribuzioneal dettaglio di generi alimentari di fascia alta.
Ha spiegato al ministro dell’Agricoltura Mario Catania che le cantine e aziende agricole italiane «hanno bisogno di poche norme chiare e precise per conquistare i mercati»; la sua proposta, che intende raddoppiare l’export di alimenti e vino di qualità è: «Un’etichetta con una mela tricolore e tre regole semplici che garantiscano il vero cibo italiano», attraverso una specie di macro-disciplinare, «Dobbiamo cavalcare per primi il concetto del pulito, così spiazziamo i francesi».
L’idea della mela tricolore arriva sulla scia «di altri slogan storici del nostro marketing. Pura lana vergine o Vero cuoio italiano, per esempio».
Scampato allo stracotto e all’umido con polenta cari ai gourmet, qui casca l’asino.
Cosa c’è dietro all’«idea» di Farinetti? Marketing, furbo e facile.
Secondo l’ex patron di UNIEURO, il nuovo agroalimentare dovrebbe sottostare a poche semplici regole: no OGM, no fertilizzanti chimici, no diserbanti, solo latte italiano, solo olive italiane, solo suini nati e allevati in Italia, nel vino metà dei solfiti ammessi dai regolamenti europei.
“Un’agricoltura che non usa OGM, non usa fertilizzanti e diserbanti chimici di sintesi (ma nemmeno gli insetticidi e gli anticrittogamiciche, anche sesingolarmente, Farinetti li scorda, i dati ufficiali ci dicono contaminare coi loro residui il 57,2% della frutta venduta in Italia) esiste già. È l’agricoltura biologica, dettagliatamente codificata da norme europee e nazionali, sottoposta a un sistema di controllo europeo, con regolari ispezioni nelle aziende e prelievo di campioni per escludere contaminazioni anche accidentali da sostanze non ammesse –sottolinea il Presidente di FederBio, Paolo Carnemolla-. Oltre alle regole citate ricordiamo che l’agricoltura biologica prevede la rotazione delle colture e la piantumazione di siepi, la salvaguardia di boschetti e stagni per dare ospitalità alla fauna utile che naturalmente contrasta quella nociva. Ma non solo: è un’agricoltura che ha massima cura del benessere degli animali, la cui alimentazionesibasa sul pascolo e su foraggi biologici senza l’uso preventivo di farmaci e antibiotici; che nelle fasi di trasformazione ripudia coloranti, conservanti, esaltatori di sapidità e ogni altro inutile additivo, insieme alle tecniche che snaturano la qualità degli ingredienti. Sfugge davvero cosa ci sia di «confuso e farmaceutico» in tali concetti, in particolare per chi svolge attività imprenditoriali nell’agroalimentare”.
Viene in soccorso ai distratti il Consiglio dell’Unione europea, per il quale l’agricoltura biologica «è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali». Essa, continua il Consiglio, esplica «una duplice funzione sociale, provvedendo da un lato a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici dei consumatori e, dall’altro, fornendo beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale».
Che cos’è, invece, l’«idea» di Farinetti?
Una consorteria di agricoltori, imprese di trasformazione e commercianti che, senza i controlli di organismi indipendenti che certifichino la loro attività, dichiarano di aver evitato alcuni trattamenti, glissando su quelli che continuano a effettuare, senza curarsi dei residui sugli alimenti, delle condizioni del suolo, delle acque superficiali e profonde, della biodiversità e del benessere animale.
La nuova mela tricolore proposta dal patron di Eataly non è una suggestiva proposta di rivoluzione dell’agroalimentare italiano, ma, semplicemente, un’ennesima patacca, di cui gli agricoltori italiani, l’ambiente italiano e i consumatori del mondo non hanno il minimo bisogno.
L’attività di commerciante di alimenti di fascia alta è della massima dignità, richiede grande applicazione e sforzi gravosi.
Meglio sarebbe se ad essa fosse dedicato l’impegno dell’imprenditore, sfuggendo le tentazioni di vestire i panni di un nuovo zoppicante maître à penser dell’agroalimentare.
L’agricoltura e la politica agricola non sono foie gras, non se l’abbia a male il gourmet.