Tra i ricordi più comuni delle vacanze estive ci sono anche i profumi che accompagnano certe giornate. Uno in particolare è inconfondibile: quello del fritto, che si diffonde nelle località di mare ma anche nelle tante feste paesane. Che si tratti di pesce, patatine o bomboloni, i cibi fritti sono talmente apprezzati e invitanti da essere associati ai momenti di svago. Anche se, subito dopo averli mangiati, in alcune persone può sorgere il timore di aver esagerato con grassi e calorie. E anche la speranza che siano stati usati oli di qualità e non riutilizzati più volte.
Un recente studio pubblicato su The American Journal of Clinical Nutrition aggiunge un'altra possibile preoccupazione per le persone più apprensive, perché è emersa un’associazione tra il consumo di fritti e alterazioni del microbiota intestinale, con conseguenze sul peso corporeo e sul rischio di sviluppare malattie cardiometaboliche.
Esiste un microbiota “da fritti”
La ricerca in questione è firmata da un team di scienziati cinesi provenienti da diverse università e istituzioni accademiche del Paese. Gli autori hanno utilizzato i dati raccolti in due grandi studi di popolazione già esistenti, la WELL-China cohort e la Lanxi cohort, che seguono decine di migliaia di persone nel tempo con interviste, analisi mediche e raccolta di campioni biologici. In questo caso, sono stati analizzati oltre 10.000 soggetti in totale, valutando sia la frequenza del consumo di alimenti fritti sia la composizione del microbiota. A seconda del loro consumo, ovvero meno di una volta al mese, 1–3 volte al mese e 4 o più volte al mese, i partecipanti sono stati divisi in gruppi diversi.
Non è un caso che questo tipo di analisi venga svolto in Cina: nella cucina orientale, sia casalinga che da ristorazione, le preparazioni fritte sono estremamente diffuse, al pari di quelle saltate o cotte al vapore.
Ebbene, i ricercatori hanno individuato 25 ceppi di batteri associati alla frequenza di consumo di pietanze fritte, costruendo un vero e proprio “indice del microbiota da fritti”, che è stato chiamato FMI (Fried food consumption-related Microbiota Index). Questo indice, se più alto, risultava correlato a un maggior accumulo di grasso, soprattutto addominale, e a un aumento del rischio di diabete e problemi cardiovascolari.
Non è ancora del tutto chiaro attraverso quali meccanismi i cibi fritti esercitino questi effetti sul microbiota. Una delle ipotesi è che le alte temperature della frittura favoriscano la formazione di composti pro-infiammatori o tossici, che a loro volta alterano la composizione batterica intestinale, favorendo un assetto più legato a obesità e condizioni metaboliche.
Un effetto familiare
Per rendere più solide le conclusioni del loro lavoro, i ricercatori hanno confrontato i dati di fratelli che condividono buona parte del patrimonio genetico e molte abitudini familiari. Anche in questo caso, chi aveva un microbiota più influenzato dal consumo di fritti mostrava un rischio maggiore per obesità e disturbi metabolici, indipendentemente da altri fattori.
Insomma, limitare la frequenza di fritti può essere una scelta utile anche per proteggere il microbiota intestinale e la salute futura. Nell’attesa di saperne di più, un buon consiglio resta quello di preferire fritture fatte ad arte, con oli di qualità e alle giuste temperature.





