Omega 3 e infiammazione: mito o realtà?

omega 3
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Assumere acidi grassi omega 3 fa davvero sempre bene? Da molti anni, ormai, da quando Barry Sears con la sua dieta zona ne ha valorizzato l’assunzione, si parla di omega 3 come strumento di riduzione dell’infiammazione. Ma è davvero efficace assumere questi acidi grassi o la loro importanza è stata sovrastimata? Proviamo a fare ordine in questo campo (non sempre facile da comprendere per tutti) attraverso un breve ripasso di alcuni contenuti scientifici noti. A molti, ma non a tutti

Tanti parlano di omega 3 senza sapere bene di che cosa si tratti. Un breve ripasso non potrà che esserci utile.

Nel nostro organismo sono presenti i grassi (trigliceridi) sia per produzione interna (di solito per tesaurizzare gli eccessi alimentari di glucosio) che per assunzione dall’esterno. Il trigliceride, come ricorda il nome, è costituito da una molecola di glicerolo (una sorta di forchetta con tre punti d’attacco) e da tre molecole di acidi grassi, che sono invece molecole più o meno lineari da 15-20 atomi di carbonio, che costituiscono, in un certo senso, la “coda” della cometa trigliceride. Questi acidi grassi possono essere saturi (cioè con gli atomi di carbonio saturati in tutti e quattro i loro potenziali legami, due con l’idrogeno e due con i carboni adiacenti) oppure insaturi, ovvero con un doppio legame tra molecole di carbonio adiacenti.

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Questa insaturazione genera un piegamento nella molecola, che fa sì che non sia più dritta come uno stuzzicadenti (come nel caso del grasso saturo) ma piegata nel punto di insaturazione.

Poiché la vicinanza tra acidi grassi adiacenti crea legami, i trigliceridi che riempiono i tre attacchi del glicerolo con grassi saturi, sono molto stabili, al contrario dei trigliceridi che legano uno o più acidi grassi insaturi (o polinsaturi), che non riescono a creare quella rigidità. Un po’ come l’asta di una bandiera (glicerolo) che sorregge una bandiera di metallo (grassi saturi) o di tessuto (grassi insaturi). Questo è il motivo per cui i grassi saturi (burro, lardo) si presentano solidi a temperatura ambiente, mentre instauri e polinsaturi (olio d’oliva, oli di semi, grassi di pesci di acque fredde) tendono invece a essere liquidi. Il legame più o meno forte fa la differenza.

Per i salmoni dell’Alaska indubbiamente disporre di grassi che restano liquidi più a lungo, anche a temperature molto basse, rappresenta un vantaggio evolutivo non indifferente. Tuttavia a noi esseri umani, che non viviamo abitualmente in acque ghiacciate, serve un giusto mix tra acidi grassi, che - dicono gli studi più recenti e affidabili - devono essere circa un terzo saturi (come quelli di carni, burro, formaggi), un terzo monoinsaturi (cioè con un solo doppio legame, come l’olio d’oliva) e un terzo polinsaturi (cioè con più di un doppio legame, come i grassi delle noci o dei pesci di acque fredde).

L’uomo occidentale tendenzialmente consuma troppi grassi saturi e troppo pochi polinsaturi, mediamente parlando. Se però facciamo il conteggio lipidico a un vegano stretto, è probabile che lo si trovi carente di grassi saturi, con alcune conseguenze meno che positive, per esempio sulla struttura delle membrane cellulari che, troppo fluide, non espongono in modo soddisfacente tutti i recettori di superficie.

Omega cosa?

Al di là, però, della suddivisione in funzione della saturazione, vi è un secondo elemento che rende importante la presenza di polinsaturi nella dieta, e in particolare di insaturi e polinsaturi della serie omega 3.

Nell’alfabeto greco alfa è la prima lettera e omega l’ultima. Gli acidi grassi omega 3 non sono altro che molecole lineari di carbonio in cui il punto di insaturazione (il doppio legame) si trova sul terzultimo atomo di carbonio partendo dal fondo (dal carbonio omega). Se l’insaturazione è sul sestultimo avremo gli omega 6, e gli omega 9 (acido oleico dell’olio d’oliva) a 9 atomi dal fondo.

Visto che la capacità di flettersi, e quindi di rimanere fluidi a basse temperature, è comune agli omega 3, ai 6 e ai 9, perché è importante inserire nella dieta adeguate quantità di omega 3? Il motivo sta nella cosiddetta “cascata dell’acido arachidonico” che cercheremo qui di riassumere nel modo più semplice possibile.

Infiammazione buona?

Quando il corpo deve produrre infiammazione, con l’intento di guarire da un evento temporaneo come un’infezione batterica o una slogatura di un polso (infiammazione buona) ha a disposizione una serie di molecole che noi medici chiamiamo prostaglandine, leucotrieni, trombossani ecc. che svolgono diverse funzioni: dal reclutamento dei fattori di ricostruzione e cicatrizzazione locale (con richiamo d’acqua) fino all’induzione della coagulazione, passando per lo stimolo alla costruzione di anticorpi. Si tratta di un mirabile sistema integrato che minimizza il tempo di guarigione e recupero da qualunque danno fisico.

Esiste tuttavia anche un’infiammazione sgradita, che è l’infiammazione cronica persistente, che nella maggior parte dei casi è generata da abitudini alimentari e di stile di vita innaturali, come la sedentarietà, il consumo di zucchero, il sovrappeso, il fumo, l’alcol, le intolleranze alimentari. E che fa leva sulle stesse molecole (leucotrieni, trombossani ecc.) generate dall’infiammazione “buona”.

Pare evidente che l’infiammazione buona debba essere lasciata sfogare (febbre in caso di influenza, gonfiore in caso di traumi) mentre quella sgradita cronica debba essere combattuta. Non ci stancheremo mai infatti di criticare, come medici di segnale, l’uso improprio di paracetamolo durante le febbri influenzali, o di antinfiammatori subito dopo piccoli o grandi traumi. Se fermo infatti la reazione antinfiammatoria, non farò altro che ritardare la guarigione.

Ma la cascata dell’acido arachidonico cosa c’entra?

Una cascata da comprendere

Abbiamo detto che da questa “cascata” biochimica dipendono tutte le molecole attive del processo infiammatorio, ma anche - come prevedibile - quelle che innescano lo spegnimento dell’infiammazione visto che ogni fenomeno biologico deve prevedere anche il proprio antidoto. Ecco allora che, semplificando veramente con l’accetta ad uso dei nostri lettori, possiamo dire che la presenza di omega 3 favorisce le uscite della “cascata” verso molecole antinfiammatorie, mentre un eccesso di omega 6 favorisce le uscite proinfiammatorie.

Ecco dunque che dalla semplificazione di un concetto, si deducono conclusioni a loro volta un po’ troppo semplificate, come l’affermazione: “assumo omega 3 così riduco l’infiammazione”. Vero e non vero allo stesso tempo, perché la biologia non è mai semplice. È elegante e appassionante, ma semplice (con i colesteroli “buoni” e “cattivi”, i carboidrati “favorevoli” ecc.) non lo sarà mai.

Proviamo quindi a ragionare da scienziati e non da addetti marketing e capiremo al volo un paio di cose. La prima è che se io non ho in corpo adeguate quantità di acidi grassi omega 3 (che il corpo non è in grado di prodursi da solo) sicuramente non riuscirò a produrre le molecole antinfiammatorie necessarie. E sarò quindi più facilmente infiammato.

La seconda però deve moderare la prima. Ovvero: ammesso che io disponga di un’adeguata quantità di omega3 (naturali o assunte in pastiglia che siano) da cosa dipenderà la produzione di molecole pro o antinfiammatorie?

La risposta, per un medico di segnale, è semplice. Prima, a monte, stanno le scelte ipotalamiche sulla convenienza o meno di infiammare. Poi, a valle, ci sarà la produzione delle molecole giuste per l’uno o per l’altro scopo.

Vediamo dunque qualche scenario possibile.

Possibili scenari

A. Sono infiammato per un ottimo motivo (infezione o trauma): il mio corpo deve produrre molecole proinfiammatorie. Lasciamoglielo fare. La presenza di omega3 non disturberà.

B. Sono infiammato cronico a causa dell’eccesso di carboidrati, della carenza di proteine, della sedentarietà, del sovrappeso: il corpo produce continuamente molecole proinfiammatorie con conseguenze visibili di danno cardiovascolare (aterosclerosi, diabete, accumulo di grasso, ipertensione). Qui si aprono due possibilità: B1) ho disponibilità di omega 3 o B2) non ho disponibilità di omega 3 perché consumo in prevalenza grassi saturi o omega 6.

Nel caso B1 SE E SOLO SE il corpo riceve segnali corretti di alimentazione e stile di vita antinfiammatori, potrà fare uso dei precursori omega3 e generare prostaglandine antinfiammatorie. Nel caso B2 (il peggiore) anche in presenza di segnali antinfiammatori, l’assenza di omega3 impedirà lo spegnimento del segnale, e rimarremo cronicamente infiammati.

Fatica inutile

In sintesi: pensare di ridurre l’infiammazione cronica assumendo omega 3 non è corretto. Se ci troviamo nel caso B2 tale assunzione può aiutare. Nei casi A e B1 non avrà alcuna particolare utilità.

Ma anche nel caso B2, quello in cui supponiamo di effettuare un’integrazione perché siamo effettivamente in carenza di omega 3, non comunque avremo alcun effetto se PRIMA non sposteremo i segnali del corpo verso la sponda antinfiammatoria.

In parole semplici: se continuo a essere sedentario, a bere e fumare, e a mangiare zuccheri come se piovesse, posso ingoiare tutte le perle di omega 3 esistenti al mondo, che la mia cascata dell’arachidonico continuerà a produrre molecole proinfiammatorie.

Ancora una volta è necessario capire che farmaci o integratori possono essere molto utili in specifiche situazioni patologiche o di carenza, ma che in assenza di un ripristino di condizioni più naturali di alimentazione e stile di vita, può essere tutta e solo fatica inutile.

Luca Speciani, Medico chirurgo ideatore della DietaGIFT e presidente AMPAS (medici di segnale)

Omega 3 e infiammazione: mito o realtà? - Ultima modifica: 2023-02-23T12:49:57+01:00 da Sabina Tavolieri

2 Commenti

  1. Visto il cronico eccesso di onega6 dovuto alla dieta moderna un apporto giornaliero di omega 3 anche in assenza di informazione, non offre un riequilibrio del rapporto ideale dei due acidi?

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