Il più autorevole storico italiano dell’alimentazione, il professor Massimo Montanari dell’Università di Bologna, ci racconta che cosa c’è alle spalle di uno dei nostri gesti più quotidiani e importanti: mangiare
La storia dell’alimentazione è sicuramente una delle più affascinanti, perché spiega le radici di gesti quotidiani comuni a tutti e a tavola giudicati banali e umili, ma che sono invece importantissimi per le loro implicazioni economiche, politiche e culturali. Siamo quindi particolarmente contenti di regalarvi il risultato di un’interessante chiacchierata che abbiamo fatto col professor Massimo Montanari, uno dei più noti e autorevoli esperti in storia dell’alimentazione a livello internazionale.
Come siamo passati dalla fame all’abbondanza?
La fame è una sofferenza e quindi non patirla è stata una grande conquista storica, benché raggiunta fra molte contraddizioni. A debellare la fame sono state le nuove tecnologie, i concimi e le macchine agricole, i sistemi di trasporto che si sono messi in moto nell’Ottocento e i sistemi di conservazione, a iniziare dal frigorifero e dai cibi in scatola: tutte cose che i contadini medievali avrebbero molto apprezzato! Il rovescio della medaglia è che il periodo dello sviluppo industriale ed economico ha coinciso con un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, che hanno perso la cultura del cibo e il rapporto con la terra e gli animali. Un’abbondanza che provoca disorientamento e che spazza via millenni di “cultura della fame” e di consapevolezza del valore del cibo, causando i noti fenomeni di sovralimentazione. Insomma, dietro alla cultura della fame c’è una storia lunghissima, mentre dietro la tecnologia dell’abbondanza c’è una storia assai breve. Questo ci porta a muoverci nel mondo dell’abbondanza con la cultura della fame, perché non abbiamo ancora metabolizzato l’idea che domani non ci sarà la carestia. A queste contraddizioni interne si aggiunge una drammatica contraddizione esterna, perché la nostra sicurezza alimentare si è costruita su meccanismi di sfruttamento coloniale che hanno lasciato ampie parti del pianeta con problemi di fame, anzi, li hanno aggravati ed esasperati.
Che cosa causa gli squilibri alimentari mondiali?
In buona parte è proprio lo sfruttamento, anche se i motivi della fame sono sempre molteplici: emergenze climatiche, povertà dei territori, guerre. Ma sul piano storico questi problemi si risolvevano quasi sempre. Pensiamo a cosa accadeva anche in Europa fino a qualche secolo fa: gli squilibri alimentari, anche drammatici, avvenivano all’interno delle singole comunità ed era più facile che si compensassero con forme di solidarietà utili a tutti, per evitare un’eccessiva emarginazione sociale e, sul piano politico, pericoli di disordini: al momento della fame vera i granai del signore sfamavano anche i contadini poveri. Poi nell’Ottocento il processo di industrializzazione fa esplodere il fenomeno del colonialismo, iniziato già con la conquista dell’America, perché, come sosteneva a ragione Lenin, l’industria arriva a un punto di espansione in cui ha bisogno di conquistare nuovi mercati, di rifornirsi di nuove materie prime: lo squilibrio e le differenze tra stili di vita si evidenziano su scala mondiale, soprattutto tra Paesi ricchi e poveri, pur mantenendosi anche all’interno delle varie nazioni. Oggi chi ha fame è lontano, non si vede, e non scattano i meccanismi di solidarietà che un tempo esistevano all’interno di ciascun corpo sociale.
Che cosa farebbe per sanare questo problema sociale?
Inizierei con l’eliminare le monocolture, cioè tutti i tipi di coltivazione che servono al mercato e non alla popolazione di chi abita i singoli territori: il problema maggiore delle economie coloniali è che hanno avviato lo sfruttamento delle terre altrui senza vantaggio per i locali.
Chi fa la spesa dai contadini, magari con un gruppo d’acquisto, è un utopista o ha ragione?
Secondo me ha stra-ragione. Pur senza negare, sarebbe stupido da parte di uno storico, i vantaggi della moderna industria alimentare. È indubbio che le economie di scala piccola hanno maggiori possibilità di sostenersi in modo duraturo, perché creano degli equilibri e condizioni di vita migliori per i lavoratori. E se un tempo queste economie rischiavano di non essere autosufficienti, oggi grazie all’informatica possono mettersi in rete e sostenersi a vicenda. Questa è forse un’utopia, ma sono proprio le utopie a permetterci di andare avanti nella direzione giusta.