Federico Francesco Ferrero, medico nutrizionista, impalmato MasterChef d’Italia 2014, sostiene il cibo biologico, a chilometro zero, la biodiversità, l’importanza di consumare tante e diverse verdure e molti altri valori condivisi dalla nostra rivista.
Ebbene sì, lo confesso: ero prevenuta, non tanto verso di lui, non lo conoscevo, quanto verso la trasmissione MasterChef che, secondo me, spettacolarizza il cibo senza dargli valore e dove si gode nel terrorizzare i poveri aspiranti cuochi. E invece Federico Francesco Ferrero, medico nutrizionista, impalmato MasterChef d’Italia 2014, mi ha proprio spiazzato. L’ho incontrato quest’estate al Festival del Libro.
Possibile a Polignano a Mare e abbiamo chiacchierato a lungo. Ho scoperto così un pozzo di scienza, ironia e simpatia.
Cosa è cambiato prima e dopo la vittoria?
La differenza più grande è che prima dovevano sopportarmi solo i più intimi amici, mentre ora, grazie a uno strumento come la televisione, posso parlare di cibo e confrontarmi con un grande numero di persone, creando occasioni di incontro e arricchimento reciproco.
Non pensi che si parli un po’ troppo di cucina?
Di cucina si dibatte moltissimo, perché è un argomento leggero, su cui tutti si sentono autorizzati a esprimere un parere. Tutto ciò ha però anche un risvolto positivo: in questo momento di crisi, etica ed estetica prima che economica, una delle poche cose che l’Italia può vendere è il cibo. Ma attenzione: non vendere il cibo come prodotto, o almeno non solo. Ciò che è importante vendere all’estero è lo stile di vita italiano a tavola e attirare turisti perché ne facciano esperienza e lo divulghino, e vengano a godere delle bellezze della nostra storia e del nostro paesaggio che purtroppo noi stiamo distruggendo.
Come possiamo valorizzare il nostro cibo?
Dovremmo recuperare gli aspetti più importanti della nostra cultura, innanzitutto quello etico, ma anche i tempi lenti, i rapporti umani, la convivialità. La nostra è la civiltà della piazza, dell’agorà greca, e la tavola è il luogo di incontro per eccellenza. Se capiremo che la bellezza che dobbiamo vendere è il ritorno a una produzione naturale, alla “tavola della domenica”, al mangiare insieme, tuteleremo i nostri cibi con una ricaduta positiva anche sull’economia.
Che cosa pensi della produzione agricola?
Mi sono molto arrabbiato perché a Torino sembrava volessero chiudere i mercati più piccoli in seguito a uno studio del Politecnico che li ha valutati “non produttivi”. Questo toglie al piccolo produttore, che con grande competenza, passione e onestà coltiva la sua terra, la possibilità di vendere i propri prodotti direttamente al consumatore e toglie a tutti una grande occasione di incontro, oltre che di consumare cibo fresco e di qualità. Ho avuto la possibilità di incontrare i professori del Politecnico che hanno compreso l’importanza di fare non solo un bilancio economico ma anche sociale di queste forme di vendita, e proveremo insieme a comunicare agli operatori e ai cittadini una maniera diversa di fare mercato. L’unica agricoltura che ci salverà è quella piccola e di prossimità, non le grandi coltivazioni intensive: non è mai successo nella storia dell’umanità che una maggior produzione si sia tradotta in una distribuzione più equa.
Sei medico nutrizionista. Una riflessione sulla nostra alimentazione
Innanzitutto che nei ristoranti si propone poca verdura. Nei menu degustazione ce n’è meno del cinque per cento e io voglio mangiarne almeno il cinquanta per cento. Innanzitutto perché è buona, esalta il sapore degli altri cibi e perché le sostanze che essa apporta, a iniziare dalle fibre, rendono più salubre il pasto nel suo complesso.
E a casa? Mangiamo abbastanza verdure?
Anche a casa non ne consumiamo abbastanza, ma soprattutto facciamo una serie di errori. Innanzitutto la compriamo male. La verdura che proviene da coltivazioni industriali, forzate e senza stagionalità, non sa di nulla, perché il sapore e le proprietà nutrizionali richiedono lentezza; inoltre acquistiamo sempre le stesse verdure, dimenticandone tantissime, con grave danno per la nostra salute e la biodiversità. Poi le facciamo cuocere troppo. Un esempio: quando sentiamo odore di cavoli, broccoli e altri della famiglia, vuol dire che sono cotti troppo e, oltre ad appestare la casa di odori sgradevoli, diventano anche indigeribili. La cucina di lunghe cotture oggi non ha più un gran senso e non è al passo con i tempi.
Il tuo ultimo libro si chiama "Missione leggerezza", cosa intendi trasmettere?
Innanzitutto ribaltare l’assunto che il cibo sano sia insapore, perché leggerezza e sapore, salubrità e bontà possono e devono convivere a tavola. E il nostro palato è un alleato straordinario della salute e ci fa capire immediatamente ciò che è buono e ci fa bene. L’importante è però che sia allenato, sin da quando siamo piccoli, a gustare cibi genuini e veri: se ci si abitua ai sapori omologati e mediocri il gusto è sollecitato solo da grassi e zuccheri che danno troppa energia di cui non abbiamo bisogno.
Ora cosa bolle in pentola?
Oltre a lavorare a un altro libro, sulle donne, ma è top secret, sto portando in giro uno spettacolo intitolato In principio era il brodo. Dove, inutile dirlo, c’è l’elogio delle verdure ma anche molto di più: racconteremo insieme al pubblico le emozioni del cibo in un viaggio nella storia e nella memoria.
Un consiglio ai nostri lettori sulla creatività in cucina
Lasciarsi guidare dal pensiero delle persone per cui si cucinerà, essere consapevoli della bellezza di quell’incontro: tutto il resto viene da sé.