Lavorare in campagna fa bene?


L’azienda Biocolombini, oltre a produrre reddito per chi ci lavora coltivando ortaggi, è uno dei posti in cui persone con disagi fisici, psichici o sociali sono accolte per imparare a coltivare, per stare meglio, forse per trovare un lavoro. Ne parliamo con il titolare, Alessandro Colombini

L’azienda Colombini, a Crespina in Provincia di Pisa, esiste dai primi del Novecento, ma dal 1997 la sua ragione sociale è mutata in Biocolombini, quando Alessandro, la terza generazione della famiglia, ha coniugato tradizione e innovazione introducendo il metodo dell’agricoltura biologica nella coltivazione dei diciotto ettari a ortaggi. La “passione agricola” dell’attuale titolare si è manifestata anche in modo inconsueto, con la pubblicazione di un romanzo giallo, scritto a quattro mani con Edi Milianti. Il titolo è L’ultimo seme e racconta la storia, di grande attualità, di un agricoltore che difende il diritto a produrre i propri semi contro le pretese monopolistiche delle multinazionali.
Con lui parliamo del suo impegno nell’ambito dell’agricoltura sociale, vale a dire di quelle esperienze che nel mondo agricolo generano opportunità di inclusione e inserimento lavorativo, per persone con disagi fisici, psichici o sociali.

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Da quando avete avviato esperienze di agricoltura sociale nella vostra azienda?

Il primo progetto cui ho preso parte, nel 2003, si chiamava “Il giardino dei semplici” e aveva come obiettivo l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Allora, in realtà, non si parlava ancora di agricoltura sociale e l’idea era partita da un’osservazione del professor Mauro Galleri, psichiatra dell’Università di Pisa, che si chiedeva ‘Perché da noi arrivano operai della Piaggio e non lavoratori agricoli?’. Di qui la sua idea che persone con diversi tipi di disagio – fisico, psichico, sociale – avrebbero trovato in campagna e nel lavoro agricolo condizioni migliori per affrontare e gestire i loro problemi.
La Usl ci mandò cinque persone con disagi psichici, noi ci mettevamo la nostra competenza di agricoltori e la nostra capacità di offrire un ambiente accogliente, tipico di un’azienda a gestione familiare, mentre per tutti gli altri problemi c’era un tutor della Asl che li accompagnava. Dopo due anni, due di questi ragazzi sono stati assunti con un regolare contratto di lavoro e due sono in “terapia occupazionale”.

Cos’è successo dopo?

Si sono fatte altre esperienze e dal 2007 esiste un “Tavolo dell’agricoltura sociale della Valdiera” di cui fanno parte la Facoltà di economia agraria dell’università di Pisa, l’Unione dei Comuni, i servizi sociali, l’Asl, le cooperative sociali e alcune aziende agricole private come la nostra. Il Tavolo tra le altre cose organizza la destinazione degli “utenti” nelle aziende agricole e nelle cooperative sociali a seconda delle attività che, secondo le stagioni, bisogna svolgere. Le persone che partecipano a questi progetti d’inserimento lavorativo in agricoltura provengono per lo più dall’area della tossicodipendenza, del disagio psichiatrico e dal carcere.
Le aziende che partecipano alla realizzazione dei progetti hanno la possibilità di utilizzare un marchio per informare e per valorizzare i loro prodotti.

Come vengono inserite queste persone nell’attività agricola?

In un’azienda che produce per il mercato, la cosa è relativamente facile perché si inseriscono in un sistema produttivo già esistente e strutturato. La nostra è un’azienda orticola e ha un ciclo che dura tutto l’anno (d’inverno in serra) fatto essenzialmente di trapianto di piantine, diserbo manuale vicino alle piantine, raccolta, pulizia, confezione e vendita. Le persone che vengono da noi possono partecipare a tutto il ciclo produttivo. Escluso l’uso dei macchinari, salvo eccezioni di persone abili al 100% come in genere quelle che vengono dal carcere. Si tratta naturalmente di inserire le singole persone valutando le loro abilità e le loro disabilità. Ma vale, comunque, il concetto che in un’azienda agricola tutti possono fare qualcosa, tutti possono trovare un’attività utile adatta a loro.

Lavorare in campagna fa davvero bene a persone con disagi fisici, psichici o sociali?

Non sono in grado di dare una valutazione scientifica, posso solo dire qual è la mia impressione. La loro permanenza presso di noi va da mesi a anni, ma in genere col passare del tempo mi pare che il loro benessere migliori. Naturalmente non si può generalizzare, ma una cosa che credo accomuni tutti è che per loro è importante venire qua perché hanno delle cose da fare. Partecipano ad attività che non sono create solo per loro, quindi il loro orizzonte si allarga, percepiscono l’utilità e il valore di quello che fanno. E questo dipende anche dal fatto che, quando stanno qui abbastanza, possono vedere tutto il ciclo: dalla piantina alla persona che compera l’insalata venuta su da quella piantina. Loro, infatti, sono presenti anche alla vendita degli ortaggi nello spaccio aziendale, nei mercatini ecc. Persino alla Coop di Pontedera dove c’è uno spazio dedicato ai prodotti “da agricoltura sociale” e dove c’è una ragazza che viene da un Centro d’igiene mentale e fa un lavoro d’informazione e promozione, distribuisce volantini, invita a comperare…

Il lavoro di queste persone è retribuito?

Dipende, alcuni hanno delle borse lavoro pagate dalle istituzioni che le assegnano, altri sono assunti e retribuiti da noi, altri ancora godono di pensioni di invalidità e non possono essere retribuiti.

Questo per voi è un impegno in più, ricevete un compenso dalle amministrazioni pubbliche?

In genere sono progetti di volontariato e io sono abbastanza contrario a ricevere finanziamenti per questo tipo di attività. La nostra è un’azienda agricola che produce ortaggi con il metodo dell’agricoltura biologica e il nostro reddito lo vogliamo ricavare da questo. Però siamo anche un’azienda inserita in un certo territorio, in rapporto con i suoi cittadini e con le sue istituzioni. Se vogliamo che si sviluppi quanto più possibile l’economia e la coesione sociale a livello locale, ci sembra utile e giusto dare un nostro contributo partecipando a progetti d’inserimento lavorativo e sociale di persone svantaggiate che vivono nel nostro territorio.
Se poi quello che facciamo diventa un motivo in più per le persone per comprare i nostri prodotti, ben venga, ma deve essere solo un motivo in più. Quello su cui noi puntiamo per realizzare il nostro reddito è la qualità dei nostri prodotti e il loro giusto prezzo.

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Lavorare in campagna fa bene? - Ultima modifica: 2013-04-14T00:00:00+02:00 da Redazione

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